La discussione sulle cariche istituzionali in democrazia si è anch’essa personalizzata. Così si rischia di ridurne la complessità.
Oggi la personalizzazione, complici la de-generazione dell’informazione (si può ancora definire così ?) e la bassissima qualità dell’offerta social (strumenti “popolari” in senso deteriore), fa girare tutto intorno a un soggetto che dovrebbe rappresentare il senso, il significato, le prospettive, le speranze di un Paese. Tutto questo avviene in democrazie percorse dall’astensionismo, male tipico di un tempo nel quale vale l’ognun per sè e non c’è traccia del “noi”.
Per quanto il soggetto (chiunque egli sia) sia competente, di grande livello, riconosciuto a livello internazionale, teoricamente capace di ricoprire qualsiasi ruolo, il grande problema delle democrazie liberali rimane quello del loro svuotamento progettuale. Le classi medie in erosione, l’aumento delle disuguaglianze, per non parlare della pandemia (formidabile acceleratore di problemi antichi), sono i mali endemici dell’Italia. Per restare a casa nostra, mentre la produttività e la crescita languono, i sacerdoti di ciò che è rimasto dell’informazione continuano a esaltare una crescita post-pandemica che a oggi si vede nei diagrammi degli analisti e che potrà essere sostenuta dai fondi europei (per fortuna che ci sono, diciamo in molti) che dovrebbero arrivare a pioggia (la maggior parte dei quali, a debito, costituiranno il conto a carico delle prossime generazioni).
Mai va buttato il bambino con l’acqua sporca e, per me, è vietato generalizzare. Però, con realismo, domandiamoci – da pensatori liberi – quale democrazia stiamo portando avanti e quanto essa sia sostenibile nei prossimi decenni. Il mio bicchiere è sempre mezzo pieno ma non mi sembra che le democrazie liberali (senza “noi”, con un corpo violentato e sempre più fragile ma sempre alla ricerca dell’uomo forte) si stiano ergendo a esempio da seguire.