(Carlo Rebecchi)
La risposta americana all’ Iran – una dura rappresaglia dopo l’attacco delle fazioni alleate di Teheran che il 28 gennaio hanno ucciso tre militari americani in Giordania – è arrivata. Nella notte tra venerdì e ieri le forze armate degli Stati Uniti hanno colpito 85 “obiettivi” in sette località della Siria e dell’ Iraq. I raid avrebbero provocato secondo l’Osservatorio siriano dei diritti dell’uomo la morte di almeno 23 combattenti filo-iraniani. Oltre alle installazioni dei movimenti amici, i proxy, in Iraq sarebbero rimasti uccisi 16 civili. i raid hanno colpito anche quartier generali della Divisione Qods, l’apparato dei Guardiani della Rivoluzione che tiene insieme e coordina le varie organizzazioni filoiraniane e le assiste. Sarebbero stati colpiti centri di comando, di intelligence, depositi di razzi, missili e droni “scelti perché direttamente coinvolti nei continui attacchi contro gli americani”, ha detto il generale Douglas Sims, direttore delle operazioni congiunte dello Stato maggiore Usa. Nei raid sono stati utlizzati anche bombardieri supersonici B1 partiti direttamente dagli Stati Uniti.
“La nostra risposta è cominciata oggi. Continuerà secondo un calendario e nei posti che sceglieremo noi”, è stata a prima spiegazione di Joe Biden, il quale ha poi dichiarato, in un comunicato, che “gli Stati Uniti non vogliono un conflitto né nel Medio Oriente né in alcuna altra parte del mondo. Ma quelli che vogliono farci del male devono sapere bene questo: se voi toccherete un americano noi risponderemo”. Secondo fonti del Pentagono, la pressione sulle fazioni amiche dell’Iran potrebbe continuare anche per settimane, soprattutto se gli Houthi yemeniti dovessero continuare rappresentare una minaccia per le navi mercantili che, dall’ Asia e dal Golfo, fanno rotta verso il canale di Suez e il Mediterraneo.
L’Iran – cui è principalmente diretto l’altolà americano, dato che è Teheran a fornire droni e missili ai movimenti amici – ha “condannato con forza” gli attacchi americani e denunciato la “violazione della sovranità di Siria e Iraq”, che ha definito un “errore strategico” degli Usa la cui conseguenza sarà “l’intensificazione delle tensioni e della instabilità nella regione”.
Circa 900 soldati americani sono presenti in Siria e 2500 in Iraq nel quadro di una coalizione internazionale anti-jihadista creata per combattere il gruppo Stato Islamico quando questo controllava la maggior parte dei territori iracheno e siriano. La coalizione è rimasta in Siria anche dopo la sconfitta dello Stato Islamico, nel 2017 in Iraq e nel 2019 in Siria.
Il Segretario di Stato americano Antony Blinken, nella nuova missione che sta per intraprendere nel Vicino Oriente, ribadirà ai suoi interlocutori che gli Stati Uniti non vogliono un allargamento del conflitto ma stanno lavorando attivamente per l’avvio di un processo diplomatico finora ostacolato soprattutto dal premier israeliano Netanyahu. L’idea della Casa Bianca sarebbe di pervenire alla creazione, accanto allo stato israeliano, di uno stato palestinese smilitarizzato e, in parallelo, di giungere al riconoscimento diplomatico tra Israele e l’Arabia Saudita. Due obiettivi che il premier Netanyahu continua a respingere con forza.
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