In particolare nel nostro tempo, nel quale l’uomo ha raggiunto incredibili frontiere di progresso, ci interroghiamo sulla sostenibilità politico-strategica del mondo e dei mondi. In spirito complesso e critico, non antagonistico, è responsabile domandarsi se ciò che abbiamo costruito nei decenni che ci separano dall’implosione dell’Unione Sovietica sia ancora in grado di reggere la potenza delle dinamiche che percorrono le nostre vite personali, le nostre convivenze e il cammino planetario: l’unica dimensione-in-tre, intrapersonale – interpersonale – globale, non è separabile e deve essere oggetto di un’analisi dinamica di ricerca dall’alto e nel profondo.
Ha ragione chi invita i cosiddetti pacifisti, mondo molto articolato, a calarsi nella realtà ‘carne e sangue’ di ciò che accade. Lo stesso dovrebbe valere, in termini di critica, per chi continua a muoversi dentro un pensiero lineare di competizione esasperata e ad aggravare disuguaglianze e paure non più sostenibili: la megacrisi de-generativa è insieme complesso di crisi settoriali.
Il ritorno della guerra nel cuore dell’Europa ci mette di fronte a domande che riguardano il medio-lungo periodo. Non ci applichiamo, in questa ricerca, sulle cronache della guerra in Ucraina e neppure tentiamo analisi strategiche, lasciando campo libero agli specialisti che studiano le dinamiche sul campo di battaglia e l’evoluzione dei rapporti di potere a livello internazionale: su questo aspetto, il nostro contributo si limita alla segnalazione quotidiana di analisi tratte dai principali think tank a livello internazionale.
L’impegno intellettuale di The Global Eye, invece, intende contribuire alla elaborazione di un giudizio storico in questa fase di grande trasformazione. Se la guerra non è una novità nella storia dell’uomo, così come l’economia a essa collegata, il tema di oggi (anche questo non nuovo ma più radicalizzato) è il rapporto sempre più stretto tra le tecnologie disruptive e le nuove forme della guerra, la conseguente trasformazione dell’ ambiente strategico e la incombente prospettiva nucleare che mostra come l’uomo sia in grado di pianificare la propria autodistruzione. Ciò che davvero sta trasformando la realtà, e che richiederebbe laboratori di riflessione aperti e transdisciplinari, è la rivoluzione tecnologica: gli approcci settoriali si rivelano sempre meno adeguati. Sappiamo, infatti, che la ricerca e la produzione tecnologica sono l’anima della competizione geostrategica attualmente in essere.
I contenuti di giudizio storico riguardano, anzitutto, la scelta strategica del pensiero complesso. E’ una scelta di campo chiara sulla quale occorre investire come via da percorrere, cammino nell’incertezza. La sostenibilità politico-strategica che abbiamo evocato, tema-dei-temi, è sistemica. Si tratta della trasformazione-in-noi nella grande trasformazione in atto.
Se non accogliamo la necessità di una radicale metanoia, lavorando dall’alto e nel profondo, non potremo cambiare via. Non è certamente facile perché si tratta, finalmente, di uscire dal pensiero strategico novecentesco e di problematizzare tutti i nostri paradigmi culturali e operativi di riferimento. Non vale il mantra ‘democrazie vs autocrazie’ perché le prime non sembrano più in grado, guardandole dal punto di vista delle comunità umane che le abitano (nel profondo), di garantire quello ‘sviluppo umano integrale’ che tutti (giustamente) vorremmo.
Mentre le autocrazie continuano a far parte del panorama strategico, le democrazie – sistemi che tutti abbiamo la responsabilità di rafforzare – si sono radicalizzate nella presunzione di essere i ‘giudici della storia’: una storia che è tornata, ricca di identità che cercano un riconoscimento sempre crescente e che, sentendosi minacciate, alzano pericolosamente il livello di sicurezza oltre la ‘giusta’ immunizzazione. Se la distinzione tra democrazie e autocrazie deve appartenerci nei termini degli irrinunciabili diritti e libertà, occorre anche prendere atto che il male è parte della storia dell’umanità perché è parte ineliminabile di noi: il male va conosciuto e contrastato ma non può più essere considerato un incidente della storia. Gli ultimi decenni parlano chiaro a questo proposito.
Si comprende, allora, la necessità non più rinviabile di trasformare radicalmente il nostro pensiero-nella-realtà e di lavorare intensamente a una riforma dell’intero sistema dell’educazione e della formazione. Un elemento ci sembra particolarmente decisivo: il paradigma politico.
Stiamo ancora vivendo in una sorta di illusione apolitica, vero e proprio auto-inganno. Chi, nel tempo che viviamo, potrebbe ancora dare spazio alla ‘fine della storia’ ? Chi potrebbe ancora sostenere che basta dire democrazia e mercato perché tutto si aggiusti, perché il mondo sia il più possibile pacificato, giusto ed equamente sviluppato ?
La metanoia di cui scriviamo è segno di realismo. Il nostro punto di fondo è che il pensiero complesso non è una scelta ma l’unica scelta possibile se guardiamo alla sostenibilità politico-strategica del mondo e dei mondi. Mai illudendoci di cancellare il male.
Chi è realista dovrebbe riflettere, con onestà e profondità, sulla sostenibilità sistemica e ammettere come, negli ultimi decenni, non si sia lavorato sulla transizione dall’ordine bipolare a un ordine diverso, quello che si chiama mondo multipolare. Ebbene, quella transizione è evoluta nel peggiore modo possibile: i flussi globali sono entrati prepotentemente, senza governo politico, nelle nostre realtà nazionali e territoriali. Mentre si avverte la tendenza a voler chiudere le società aperte, anziché cercare mediazioni politiche dentro una nuova visione di globalità responsabile, dovremmo ammettere che l’apertura è avvenuta in un momento di massima euforia da ‘fine della storia’. Non si è tenuto conto che le identità si sarebbero radicalizzate, che la voglia di piccole patrie sarebbe tornata, che le democrazie si sarebbero erose e che gli autoritarismi sarebbero tutt’altro che scomparsi, che la paura dell’altro e del diverso si sarebbe diffusa, che le disuguaglianze sarebbero esplose. Dire questo in termini critici non significa negare i vantaggi portati dalla globalizzazione: ma ci troviamo, purtroppo, a dover fare i conti con una bilancia che pende pericolosamente dal lato del prezzo troppo alto pagato dalla sostenibilità sistemica. Con questo, anzitutto culturalmente, dobbiamo fare i conti.