(Marco Emanuele)
E’ necessario, in questa ennesima guerra mediorientale che aggrava panorami di radicalizzazione di un esistente senza respiro storico, capire che il tema fondamentale è il destino dei due popoli. Edgar Morin (la Repubblica, 20 ottobre 2023) invita tutti a respingere l’odio. Il grande filosofo francese scrive dell’evoluzione di Israele (oggi, ‘cittadella in guerra’), tante volte colpita nella sua storia, culminando nell’inaggettivabile Shoah fino all’azione da ‘male banale’ di Hamas (non in nome della causa palestinese e non in nome di Dio, al di là della propaganda di guerra). Ma la radicalizzazione interna non può giustificare la sovrapposizione tra legittimità della reazione e vendetta. Se guardiamo ai popoli, infatti, entrambi sono vittime di questa situazione e non vale, da una parte e dall’altra, il principio di colpa collettiva: destinati all’odio ?
Il tema di Morin ci aiuta a capire la complessità di una situazione difficilissima da risolvere, al di là di ciò che accade ‘booz on the ground’. Vi sono movimenti di politica e diplomazia a livello internazionale perché tutti, per ragioni differenti e a volte contrastanti, esprimono grande attenzione strategica. L’importante, ci permettiamo, è non lasciare vuoti geopolitici. Hamas è complessa e inserita in reti ben più ampie e, oltre a essere una organizzazione terroristica, è anche una ideologia: cosa significa eradicarla ?
Oltre il terreno, però, rimane la questione dei due popoli. Per superare il destino all’odio, occorre un grande movimento di de-radicalizzazione reciproco. Occorre che tutti capiscano che lo spazio territoriale è quello (la geografia vince sulle nostre volontà), che la colonizzazione selvaggia non fa altro che creare nuovo risentimento (dunque, nuovo odio) e che il fronte regionale è lì, pronto ad esplodere. Su questo fronte, in particolare, serve l’intervento della comunità internazionale (l’Europa ha una posizione ?).
Occorre che le parti comprendano che la questione palestinese non può continuare a rimanere congelata, così come il popolo d’Israele non può continuare a vivere in una eterna sospensione d’insicurezza. Il lavoro di autocritica, da entrambe le parti, riguarda il destino dei due popoli all’esistenza e, con architetture istituzionali da studiare (la soluzione ‘due popoli, due Stati’ sembra appartenere a tempi lontani), alla coesistenza.
Morin scrivere chiaramente che con l’odio non si va da nessuna parte, anzi si arretra nella tragedia umana e umanitaria che vediamo consumarsi ogni giorno di più. E occorre, aggiungiamo noi, uscire dalla logica di stereotipi (presunti) vincenti: israeliano/guerrafondaio e palestinese/terrorista. Quegli stereotipi servono solo a chi vuole mantenere lo ‘status quo’ e lasciare che si alimentino risentimento reciproco, odio e violenza: noi stiamo dall’altra parte, con Morin e con tutti coloro che decidono, responsabilmente, di calarsi nell’oltre passando nel profondo, secondo complessità. Per i due popoli.
(English version)
It is necessary, in this umpteenth Middle East war that aggravates views of radicalisation of an existing without historical breath, to understand that the fundamental issue is the fate of the two peoples. Edgar Morin (la Repubblica, 20 October 2023) calls on everyone to reject hatred. The great French philosopher writes about the evolution of Israel (today, a ‘citadel at war’), so many times struck in its history, culminating in the unspeakable Shoah up to the ‘banal evil’ action of Hamas (not in the name of the Palestinian cause and not in the name of God, beyond war propaganda). But internal radicalisation cannot justify the overlap between the legitimacy of reaction and revenge. If we look at the peoples, in fact, both are victims of this situation and the principle of collective guilt does not apply: destined to hate?
Morin’s theme helps us to understand the complexity of a very difficult situation to resolve, beyond what happens ‘booz on the ground’. There are movements of politics and diplomacy at the international level because all the players, for different and sometimes conflicting reasons, express great strategic attention. The important thing, we would argue, is not to leave geopolitical gaps. Hamas is complex and embedded in much wider networks and, besides being a terrorist organisation, it is also an ideology: what does eradicating it mean?
Beyond the terrain, however, remains the question of the two peoples. To overcome the destiny of hatred, a great movement of mutual de-radicalisation is needed. We need everyone to understand that the territorial space is there (geography overcomes our wills), that savage colonisation only creates new resentment (hence, new hatred) and that the regional front is there, ready to explode. On this front, in particular, the intervention of the international community is needed (does Europe have a position?).
The parties must understand that the Palestinian question cannot continue to remain frozen, just as the people of Israel cannot continue to live in an eternal suspension of insecurity. The work of self-criticism, on both sides, concerns the destiny of the two peoples to exist and, with institutional architectures to be studied (the ‘two peoples, two States’ solution seems to belong to distant times), to coexist.
Morin write clearly that with hatred we go nowhere, on the contrary we retreat into the human and humanitarian tragedy that we see consuming more and more every day. And it needs, we add, to get out of the logic of (supposedly) winning stereotypes: Israeli/war-monger and Palestinian/terrorist. Those stereotypes are only useful to those who want to maintain the ‘status quo’ and allow mutual resentment, hatred and violence to feed: we are on the other side, with Morin and with all those who decide, responsibly, to step into the beyond by passing into the deep, according to complexity. For the two peoples.
(riproduzione autorizzata citando la fonte)