(Carlo Rebecchi)
L’ operazione a Gaza durerà a lungo; prima bisogna trovare un’intesa sul significato della parola “pace”
“A meno di un miracolo, tutto ciò che nell’immediato si può ottenere – una volta finita l’operazione militare israeliana nella Striscia – è una pace armata, una specie di tregua. Quanto alla pace vera, tutto dipende dal significato che ciascuno dei leader delle parti in causa e dei loro ‘sponsor’ dà alla parola pace e dalla convenienza che pensa di ottenere firmandola; e ancora perché – la storia insegna – troppo spesso anche gli accordi che portano alla pace sono rimasti e rimangono lettera morta”.
E’ un ex ambasciatore a ipotizzare, in un colloquio con The Global Eye, il futuro prossimo dello scontro tra Israele e Hamas e le chances di pace dell’ azione diplomatica che capi di Stato, ministri degli esteri e rappresentanti di ogni religione portano avanti da otto giorni, da quando Hamas ha invaso Israele, con un unico e identico obiettivo: la pace. Un frenetico tourbillon di colloqui, messaggi e visite per tentare di realizzare in una manciata di ore, prima che il già tragico bilancio dell’invasione aumenti ancora, quella pace che non si è stati capaci di fare nei 75 anni che hanno preceduto la barbarie del 7 ottobre.
Tutti impegnati nella ricerca di una pace che giurano di volere giusta. Dal capo del governo israeliano Bibi Netanyhau al presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, da Biden a Putin, dai governanti iraniani a quelli cinesi e turchi, a tutti i leader d’ Europa e del mondo. Un turbinio di incontri ai massimi livelli che mette faccia a faccia leader amici da sempre e altri che non si sono mai parlati. Avremo la pace in tempi brevi, allora?
Salvo miracoli, purtroppo, no. Ne sono convinti i migliori analisti. Come Peter Bergen, professore presso l’Arizona State University e analista della CNN, sulla base di una lunga conversazione con il ricercatore dell’ Institute for National Security Studies di Tel Aviv, Kobi Michael. Bergen fa due previsioni: una negativa, cioè che l’operazione appena avviata da Israele a Gaza “potrebbe durare dei mesi”, ed una ottimistica, e cioè che Hetzbollah non intenderebbe allargare il conflitto aprendo un nuovo fronte al confine di Israele con il sud Libano.
Una pace giusta non contempla una verità assoluta, che nella storia coincide il più delle volte con quella dei vincitori. Giusta è una pace che riconosce i diritti dell’altro da sé, e che valorizza la parola “compromesso”, di cui né Hamas né Israele vogliono sentir parlare. D’altra parte, come puntualizza il cardinale Matteo Maria Zuppi, che per Papa Francesco sta portando avanti contatti con Putin per l’Ucraina, la pace giusta “deve essere raggiunta attraverso il diritto e non con le armi, è quella che restituisce ciò che è stato tolto e quella che risolve i conflitti, e deve essere sicura perché garantita”.
La fonte diplomatica con la quale The Global Eye cerca di capire il futuro di questa guerra e del popolo palestinese ha lavorato per anni alla Rappresentanza delle Nazioni Unite a Ginevra sui dossier diritti dell’uomo e questioni umanitarie. E sulla base di questa esperienza oggi si iscrive al partito degli scettici. “Ho potuto constatare che su questi temi si fa una grande retorica, nessun governo è senza peccato ed è “entitled” a lanciare la prima pietra – afferma -.Tutti abbiamo da imparare e non soltanto da insegnare “.
L’elenco dei dossier transitati sulla sua scrivania, e in parte ancora aperti, è lunghissimo: Balcani, Rwanda, Somalia, Iraq, Afghanistan, Libano, “the forgotten wars”. E, ovviamente, Israele e i Territori occupati: una crisi politica ed umanitaria permanente da 75 anni. “La complessità e l’intreccio dei legami visibili e occulti esistenti tra i diversi protagonisti e co-protagonisti della crisi escludono che si riesca a parlare di pace in tempi brevi” sostiene. E definisce “urgente” individuare da subito “obiettivi basici” per rendere la guerra “meno crudele”: per esempio che “venga sempre rispettata la dignità umana, che vengano rispettati tutti i civili, con particolare riguardo alle persone vulnerabili; e che qualsiasi atto di efferatezza, crudeltà e violenza venga chiamato, condannato e perseguito con il nome che merita, senza “se e senza ma”. Altrimenti, la sua conclusione, saremmo davanti a una dotta esibizione dialettica di saperi alla ricerca della generica ed abusata ’pace giusta e duratura’. Come se esistesse, o si potesse essere in favore, di paci ingiuste e temporanee”.
(English version)
The operation in Gaza will last a long time; first an understanding has to be found on the meaning of the word ‘peace’
“Barring a miracle, all that can be achieved in the immediate term – once the Israeli military operation in the Strip is over – is an armed peace, a kind of truce. As for real peace, it all depends on the meaning that each of the leaders of the parties involved and their ‘sponsors’ gives to the word peace and the convenience they think will obtain by signing it; and again because – history teaches us – all too often even agreements that lead to peace have remained and remain a dead letter’.
It is a former ambassador who hypothesises, in an interview with The Global Eye, the near future of the clash between Israel and Hamas and the chances for peace of the diplomatic action that heads of State, Foreign ministers and representatives of all religions have been carrying out for eight days, since Hamas invaded Israel, with one and the same goal: peace. A frenetic tourbillon of talks, messages and visits in an attempt to achieve in a matter of hours, before the already tragic toll of the invasion increases further, that peace that has not been able to be achieved in the 75 years that preceded the barbarity of 7 October.
All committed to the quest for a peace that they swear they want to be just. From the head of the Israeli government Bibi Netanyhau to the president of the Palestinian Authority Abu Mazen, from Biden to Putin, from the rulers of Iran to those of China and Turkey, to all the leaders of Europe and the world. A whirlwind of meetings at the highest levels bringing face to face leaders who have always been friends and others who have never spoken to each other. Will we have peace soon, then?
Barring miracles, unfortunately, no. Top analysts are convinced of this. Like Peter Bergen, professor at Arizona State University and CNN analyst, on the basis of a long conversation with the researcher at the Institute for National Security Studies in Tel Aviv, Kobi Michael. Bergen makes two predictions: a negative one, namely that the operation just launched by Israel in Gaza ‘could last for months’, and an optimistic one, namely that Hetzbollah would not intend to widen the conflict by opening a new front on Israel’s border with south Lebanon.
A just peace does not contemplate an absolute truth, which in history most often coincides with that of the victors. Just peace is a peace that recognises the rights of the other, and that values the word ‘compromise’, which neither Hamas nor Israel wants to hear about. On the other hand, as Cardinal Matteo Maria Zuppi, who for Pope Francis is conducting contacts with Putin on Ukraine, points out, just peace ‘must be achieved through law and not with weapons, it is that which gives back what has been taken away and that which resolves conflicts, and it must be secure because it is guaranteed’.
The diplomatic source with whom The Global Eye seeks to understand the future of this war and of the Palestinian people has worked for years at the UN Representation in Geneva on human rights and humanitarian issues. And on the basis of this experience he now joins the party of the sceptics. “I have seen that there is a lot of rhetoric on these issues, no government is without sin and it is ‘entitled’ to cast the first stone,” he says. “We all have something to learn and not just to teach”.
The list of dossiers that have crossed his desk, and some of which are still open, is very long: the Balkans, Rwanda, Somalia, Iraq, Afghanistan, Lebanon, ‘the forgotten wars’. And, of course, Israel and the Occupied Territories: a permanent political and humanitarian crisis for 75 years. “The complexity and intertwining of the visible and covert links between the various protagonists and co-protagonists of the crisis exclude the possibility of talking about peace any time soon,” he argues. And he defines it as ‘urgent’ to immediately identify ‘basic objectives’ to make war ‘less cruel’: for example, that ‘human dignity be respected at all times, that all civilians be respected, with particular regard to the vulnerable; and that any act of savagery, cruelty and violence be called, condemned and prosecuted by the name it deserves, without ifs and buts’. Otherwise, his conclusion, we would be faced with a learned dialectical display of knowledge in search of the generic and abused ‘just and lasting peace’. As if there were, or could be in favour of, unjust and temporary peace’.
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