Cina e cambi al vertice di Esteri e Difesa. Sullo sfondo, le ragioni geopolitiche guardando a Washington

(Carlo Rebecchi)

Martedì scorso un annuncio degli organi d’informazione ufficiali cinesi ha reso noto che il presidente Xi Jinping aveva rimosso due ministri – quelli della Difesa, il generale Li Shangfu, e degli Esteri, Qin Gang. Il ministro della Difesa aveva partecipato a Ferragosto a Mosca ad una conferenza sulla sicurezza e due giorni dopo aveva incontrato a Minsk, in Bielorussia, il presidente Lukashenko; e da allora non era stato più visto. Il nome del suo successore non è stato ancora comunicato.

Come ministro degli Esteri è stato “ripescato” Wang Yi che, ironia della sorte, era stato rimosso in luglio proprio per far posto a Qin Gang. Wang Yi è da oggi a Washington per una visita – la prima di un capo della diplomazia cinese dal 2019 – durante la quale avrà incontri con il segretario di Stato Antony Blinken in un clima di disgelo: ieri, il presidente Xi Jinping ha dichiarato infatti che la Cina sostiene i principi di “mutuo rispetto, coesistenza pacifica e cooperazione win-win” con gli Stati Uniti. Wang Li dovrebbe preparare l’incontro Xi-Biden di metà novembre, il primo sul suolo americano dal 2015.

La decisione del presidente Xi di rimuovere il ministro della Difesa ha colpito gli analisti perché Shangfu, come anche Qin, sarebbe stato fatto Eministro (il generale in marzo e il ministro degli esteri in luglio) proprio per scelta personale del presidente cinese. Neil Thomas, dell’Asia Society Policy Institute, scrive in proposito che se la rimozione fosse dovuta ad incapacità si sarebbe davanti a carenze nel processo di valutazione degli alti funzionari , errore questo imputabile ai meccanismi stabiliti dal XX congresso del Partito Comunista cinese.

L’interrogativo è se il motivo dell’allontanamento del generale, come sembrerebbero indicare fonti rimbalzate dagli Stati Uniti, sia il suo coinvolgimento in episodi di corruzione, oppure se si tratti di scelte destinate a modificare se non la linea di politica estera, almeno la comunicazione su questi temi. Interrogativi importanti nel momento in cui la diplomazia del Dragone cerca con affanno, e finora senza successo, di fermare la spirale di morti in Israele.

Subito dopo il 7 ottobre la Cina era stata insolitamente esplicita nel sostenere attraverso i suoi media il popolo palestinese, rompendo la sua dichiarata politica di non interferenza negli affari interni di un altro Paese. Successivamente il presidente Xi, secondo quanto hanno riferito i media statali cinesi, ha affermato la disponibilità e volontà della Cina di “contribuire” alla ricerca di una “soluzione giusta e duratura” alla questione israelo-palestinese e che è “fondamentale impedire che il conflitto si estenda o se ne perda il controllo”. Un cambiamento di tono interpretato da una parte di analisti, tra cui John Calabrese del Middle East Institute intervistato da The Global Eye, come un aggiustamento della linea diplomatica cinese per portarla su una posizione più sfumata e bilanciata. I colloqui di Wang Li dovrebbero permettere ora di capire se USA e Cina possono lavorare insieme almeno per un cessate il fuoco, magari con iniziative della Cina verso l’Iran.

Quanto alla rimozione del generale Shangfu, sul cui significato analisti – e Dipartimento di Stato – sperano di avere dal ministro degli esteri cinese almeno una chiave di lettura, l’ex capo della diplomazia di Taiwan, Andrew Yang, ritiene che il presidente Xi abbia voluto con la sua decisione “mandare un messaggio, far capire a tutti che tiene un rigido controllo sui militari” e che “non c’è tolleranza per quanto riguarda la corruzione”.

Soprattutto dopo i numerosi casi di venuti alla luce negli ultimi tempi, il più clamoroso dei quali ha riguardato nell’agosto scorso anche alcuni degli ufficiali più alto in grado dei responsabili del programma nucleare, in un momento problematico sul piano interno, per i seguiti della pandemia e il calo della crescita, sventolare la lotta alla corruzione è sempre utile. L’ attenzione del presidente Xi alle forze armate, anche al prezzo della rimozione di un alto ufficiale che lui stesso aveva scelto, potrebbe spiegarsi anche con il ruolo di peso che l’atteso successore di Shangfu – non ancora designato – è destinato ad avere nel dialogo tra Cina e Stati Uniti se le due parti decideranno di riprendere i contatti militari ad alto livello interrotti dal 2022, come vorrebbero gli americani. Funzionari del Pentagono sostengono infatti che le forze armate dei due Paesi devono “comunicare spesso e tempestivamente per evitare o disinnescare potenziali crisi”: i loro pattugliamenti nelle aree contese, compreso il Mar Cinese Meridionale, aumentano infatti il rischio di un conflitto involontario.

(riproduzione autorizzata citando la fonte)

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