(Carlo Rebecchi)
I Balcani occidentali, sulla porta di casa dell’ Italia, “sono una priorità per la Nato”, non soltanto dell’ Unione Europea. Il giudizio è di un diplomatico che conosce bene la Nato, perché dal 2001 al 2007 ne è stato il segretario generale: l’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo. La guerra in Ucraina, constata il diplomatico, ha cambiato tutto. Nei Balcani, dove era stato avviato un ritorno alla normalità dopo le sanguinose guerre degli anni ’90, sono ora sempre più visibili, oltre ai russi, anche cinesi e turchi. Ed il timore è che i paesi “della porta accanto” potrebbero diventare nei prossimi anni fonte di insicurezza in questa parte del Mediterraneo allargato. Per diversi ordini di ragioni.
Le rivalità ed ambiguità ancora vive nei sei paesi della regione (Albania, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Kosovo) hanno radici e riferimenti in un passato storico che porta a Mosca. L’instabilità politico-economica balcanica è un terreno ideale per quei Paesi che, per condizionarne gli sviluppi futuri, volessero inserirsi in quest’area destinata a diventare Unione Europea: il riferimento esplicito è alla Russia, qui di casa ai tempi della Jugoslavia del maresciallo Tito, ma anche alla Turchia e, per via della religione islamica, persino dell’Arabia Saudita; con la new entry della Cina.
Quelli appena abbozzati sono alcuni dei grandi temi che fanno dei Balcani una priorità per l’Occidente. Secondo l’ambasciatore Minuto Rizzo, che è un profondo conoscitore dei meccanismi interni e del funzionamento dell’UE e della Nato, c’è però un pericolo ancora più immediato: quello che, così come sono state strutturate quando furono create, queste organizzazioni non riescano a funzionare quando, tra breve, avranno un numero di membri ancora maggiore.
Se i Paesi dell’Unione Europea sono destinati a diventare trentacinque (rispetto agli attuali 27 ed ai 15 di quarant’anni fa) nei prossimi anni 35 (a fronte dei 27 di oggi ed ai 15 di quarant’anni fa) l’UE non potrà più essere quella che era ieri e fatica ad essere oggi. Diventerà un’altra cosa nella quale i fattori politici, economici, sociali e, perché no?, religiosi (nei Balcani ci sono cattolici romani, ortodossi e musulmani) rischiano di prevalere e diventare divisivi.
Per evitare poi il rischio di una “implosione” di questo organizzazioni che sono alla base della sicurezza e del benessere dell’Occidente, sarà indispensabile aggiornare in tempi brevi i meccanismi di decisione, viste le difficoltà che crea già oggi, in consessi così ampi, il voto a maggioranza. E’ questa una strada lungo la quale su alcuni temi l’UE si è già incamminata quarant’anni fa, dopo la caduta Muro di Berlino; e si è visto in questi anni quanti problemi questo pone.
Il problema del futuro assetto dell’Unione e della Nato, dato che l’Alleanza atlantica è anch’essa confrontata ai medesimi problemi, è “molto serio”. L’aumento del numero di paesi membri è complesso sul piano organizzativo; ed è ancor già delicato sulla “identità” che i nuovi arrivati, insieme con quelli già presenti, conferiscono alle rispettive organizzazioni. In altre parole servono pesi e contrappesi per evitare che ci si ritrovi con organizzazioni dal dna diverso da quello iniziale.
Una differenza sottolineata, indirettamente, dall’ ambasciatrice Laura Mirachian, che ha alle spalle molti anni a Belgrado, quando ricorda come nei Balcani, negli anni difficilissimi delle guerra degli anni novanta, l’ONU, l’UE e tutte le altre istituzioni internazionale hanno lavorato “in un spirito d’intesa che ho non ho più rivisto”. Stati Uniti, Russia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia – i paesi del cosiddetto Gruppo di contatto – lavoravano all’unisono, perché pur con tutte le differenze nazionali che c’erano, prevalevano una visione e un obiettivo comuni.
Cambiare le società però non è semplice e richiede tempi lunghi. Il primo passo è quello del benessere economico, e l’Unione Europea è molto attiva con i paesi balcanici. Appena pochi giorni fa gli ambasciatori dei 27 Stati membri hanno approvato il mandato negoziale per un Fondo di riforma e crescita per aiutare i Paesi della regione ad intraprendere una serie globale di riforme socio-economiche anche sullo Stato di diritto e sui diritti fondamentali.
Il Piano prevede 6 miliardi di euro – 2 miliardi come sostegno a fondo perduto e 4 miliardi in prestiti – in quattro anni: importi da erogare che rappresentano un “aumento sostanziale dei finanziamenti previsti” fino al 2027, pari a “oltre il 40 per cento” dei 14 miliardi di euro già messi a disposizione dei Paesi in fase di pre-adesione per lo stesso periodo. Per Serbia e Kosovo ci sono dei precisi “paletti”: senza progressi nel dialogo con Pristina, i finanziamenti rimarranno in stallo o andranno perduti. Identico discorso per Bosnia ed Erzegovina in caso di mancata implementazione delle riforme fondamentali.
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