A Downing Street prove d’Europa (di Marzia Giglioli)

Andare avanti senza l’America si può?

La svolta impressa dal presidente Trump e l’accelerazione della sua visione globale non lascia scampo. Washington agisce in fretta e l’Europa non può aspettare. La sua diplomazia consolidata, le sue certezze multilaterali devono essere riviste. In fretta.

Lo scontro nella Sala Ovale tra il presjdente Usa e il leader ucraino Zelensky non è che una conferma di quanto in realtà Trump dichiara fin dall’inizio della sua campagna elettorale.

Avergli ‘non creduto’ è stato un grave errore di valutazione. Ciò che accade è coerente con America First, che non è uno slogan ma è sostanza geopolitica. Quella di Trump non è una visione complessa ma unidirezionale. Sentirsi ‘offesi’, come stanno dimostrando alcuni Paesi europei dal non essere più gli interlocutori principali di Washington, serve a ben poco.

Il punto è semplice: negli ambiti della difesa e della sicurezza energetica l’Europa deve liberarsi dalla dipendenza degli Usa”, scrive Michael Witt, esperto di Ricerca sul Lavoro e docente all’ Insead.

Se vogliamo segnare la data di inizio del cambiamento, al di là delle dichiarazioni elettoralistiche, guardiamo al 13 febbraio quando Trump ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero negoziato direttamente con la Russia per mettere fine al conflitto in Ucraina. Il giorno dopo sono gjunte le accuse alla mancanza di democrazia in Europa da parte del viceoresidente Vance, un colpo netto al Vecchio Continente su un tema che si pensava inattaccabile.

Così, in pochi giorni, il mondo occidentale si è sentito ‘capovolto’: dall’essere alleati al sentirsi rivali.

Ma c’è una spiegazione razionale a questa svolta statunitense?

Riportiamo su questi punti un’articolata analisi del professor Witt che traccia anche quali potrebbero essere le conseguenze economiche di questo cambio di passo e come potrebbero modificarsi gli asset in vista anche di probabili svolte regionalstiche da parte degli Stati.

Sulle cause della svolta trumpiana si fanno le congetture più diverse. ‘Alcuni hanno attribuito questo doppio shock al gusto trumpiano per il caos, altri hanno suggerito che fossero coerenti con l’idea che Trump e il suo team potrebbero essere agenti russi che hanno catturato l’esecutivo statunitense – scrive Witt – . Altri ancora li hanno interpretati come un tentativo di separare la Russia dalla Cina e di far sì che l’Europa si prendesse cura di sé in modo che gli Stati Uniti potessero concentrarsi sulla rivalità con Pechino (trascurando il fatto che questo potrebbe spingere l’Europa e altri ad avvicinarsi alla Cina).

Alla fine, la spiegazione potrebbe essere abbastanza semplice. L’obiettivo dichiarato di Trump è ‘rendere di nuovo grande l’America’, non ‘rendere di nuovo grande l’Occidente’.

Trump sembra vedere il mondo come un gioco a somma zero, sottolineando le vittorie degli Stati Uniti rispetto a tutti gli altri Paesi, compresi alleati e amici come il Canada. Che queste vittorie possano alla fine rendere gli Stati Uniti più poveri non sembra avere importanza: la chiave è battere l’altro.

Gli Stati Uniti potrebbero quindi essere mentalmente tornati a una visione del mondo descritta dalla scuola realista delle relazioni internazionali: gli stati nazionali esistono in un contesto internazionale di anarchia e devono lottare l’uno contro l’altro per sopravvivere: l’unica cosa che conta è il potere economico e militare del proprio Paese rispetto a quello degli altri. Le regole internazionali sono prive di significato e le alleanze sono accordi temporanei di convenienza che cambiano a seconda delle necessità.

Naturalmente, il realismo presuppone anche un processo decisionale razionale.

Internamente, Trump e il suo team sembrano intenzionati a distruggere la capacità amministrativa dello Stato americano (licenziando accidentalmente ingegneri di armi nucleari …). Esternamente, Washington sta alienando proprio i Paesi di cui ha bisogno per l’aiuto se gli Stati Uniti, con un PIL che ora è sceso a circa l’ 80 per cento di quello della Cina, vogliono prevalere.

Il capo della Difesa di Singapore, Ng Eng Hen, ha descritto in modo suggestivo la percezione dell’America come se fosse passata ‘da liberatrice a grande perturbatrice a proprietari terrieri in cerca di rendite’.

Implicazioni per l’Europa

L’Europa non può permettersi di essere passiva di fronte a questi sviluppi. Sebbene sia possibile che gli USA possano tornare a una politica estera più cooperativa, la speranza non è una strategia. L’Europa deve adottare misure proattive per prepararsi a un futuro in cui potrebbe essere costretta a difendersi senza il supporto americano.

Secondo Friedrich Merz, probabile prossimo cancelliere tedesco, la Germania e l’Europa ‘devono essere preparate al fatto che Donald Trump non accetterà più pienamente la promessa di assistenza prevista dal trattato della Nato’.

La sfida principale dell’Europa è che la Russia rimane una minaccia chiara e immediata. Con l’iniziativa di pace di Trump, la Russia potrebbe mantenere il controllo dei territori ucraini che ha conquistato. Una pace così progettata dagli Stati Uniti non porrebbe realmente fine al conflitto; lo congelerebbe solo temporaneamente. Dopo il riarmo, Mosca probabilmente dirigerebbe la sua attenzione verso la conquista del resto dell’Ucraina e potenzialmente di altri Paesi vicini, come i Paesi baltici.

Per frenare l’espansione russa in un’epoca di indifferenza o antagonismo degli Stati Uniti, l’Europa deve adottare misure decisive, sotto molti aspetti. La cosa più urgente sono gli sforzi per rafforzare la sua deterrenza militare. Le attuali discussioni sull’aumento delle forze militari convenzionali, sebbene importanti, sono insufficienti. Un’Europa armata in modo convenzionale rimane vulnerabile al ricatto sia della Russia che degli Stati Uniti: la Russia può minacciare di usare armi nucleari per vincere un conflitto convenzionale con l’Europa; gli Stati Uniti possono minacciare di trattenere la loro protezione nucleare contro la Russia per costringere l’Europa a conformarsi.

L’Europa deve perseguire urgentemente un deterrente nucleare credibile. La via più semplice ed efficace per raggiungere questo obiettivo è quella di basarsi sull’offerta francese di estendere la sua protezione nucleare alla Germania e, idealmente, al resto d’Europa. (il problema con il Regno Unito non è solo la difficoltà con qualsiasi cosa sia continentale, ma anche il fatto che i missili nucleari britannici sono noleggiati dagli Stati Uniti).

La Germania, il Paese più grande ed economicamente più potente d’Europa, gioca un ruolo fondamentale in questo. Sarebbe il principale beneficiario di un ombrello nucleare francese esteso e, in quanto tale, sarebbe ragionevole che pagasse di più. Con il suo basso debito, la Germania potrebbe facilmente mobilitare il denaro, ma ciò che le manca è la volontà di farlo. Deve superare se stessa. Dopo aver iniziato due guerre mondiali, il Paese ha ora l’opportunità di essere un attore importante nell’impedirne una terza (almeno una che inizi in Europa).

Oltre alla sicurezza militare, l’Europa deve anche affrontare urgentemente la sua vulnerabilità nella sicurezza energetica. La dipendenza del continente da fonti energetiche esterne lo espone a potenziali ricatti e destabilizzazioni. È difficile immaginare che l’Europa sarà in grado di proteggere le rotte di navigazione e gli oleodotti da cui dipende per le importazioni di energia in tempi brevi.

Per mitigare questo rischio, l’Europa deve aumentare la produzione energetica interna. Oltre a un mix di fonti energetiche rinnovabili, come l’eolico e il solare, l’Europa dovrebbe porre un rinnovato focus sull’energia nucleare, preferibilmente su reattori di nuova generazione, più sicuri e meno vulnerabili.

Ancora una volta, la Germania emerge come l’attore centrale. Chiudere le sue centrali nucleari è stato un grave errore politico, così come lo è stato promuovere goffe politiche climatiche che hanno alienato ampie fasce della popolazione. È tempo di correggere questi errori.

Implicazioni per le aziende

Supponendo che l’Europa accetti la sfida, assisteremo a una ridistribuzione delle risorse verso la difesa e altre industrie critiche, come l’IT locale. Queste risorse devono essere prese da qualche parte. Sembra probabile che i tempi in cui l’Europa poteva rappresentare il 7 per cento della popolazione mondiale e il 50 per cento della sua spesa sociale siano finiti. Le aziende nei settori interessati dovrebbero esplorare scenari e possibili risposte strategiche.

Contemporaneamente, l’emergere di un mondo multipolare sta diventando sempre più probabile, con blocchi che si formano attorno ai principali attori: Cina, Europa, Stati Uniti e forse anche India. Dati gli istinti protezionistici della maggior parte di questi attori, e la sempre più probabile Grande Guerra Commerciale del 2025, sembra quasi certo che il commercio tra questi blocchi ne soffrirà. Ciò ha importanti implicazioni per esportatori e importatori, nonché per le catene di fornitura internazionali.

Una risposta logica da parte di aziende più grandi con le risorse necessarie sarebbe quella di creare operazioni parallele in ogni blocco, sulla falsariga dell’approccio ‘Cina per la Cina’ e dell’attuale corsa agli investimenti in siti negli Stati Uniti. La scala ne risentirà sicuramente, poiché i mercati target si ridurranno dal mondo alle singole regioni. Così come i flussi di conoscenze e personale se i blocchi si considerano avversari.

Spinte all’estremo, le imprese multinazionali potrebbero trasformarsi in raccolte di molteplici organizzazioni regionali indipendenti, senza molto spazio per strategie globali. A meno che non rimangano sinergie tangibili tra le regioni, la conclusione logica sarebbe quella di scorporare queste operazioni regionali.

In una certa misura, ciò che sta accadendo ora assomiglia alla frammentazione politica ed economica degli anni ’30. Allora, come oggi, gli Stati Uniti erano un motore importante. Non è finita bene. Se questa volta sarà diverso, molto dipenderà dai leader politici europei.

Michael A.Witt è professore di International Business and Strategy alla King’s Business School e professore associato all’ INSEAD. Ha conseguito un Dottorato in Scienze Politiche all’Università di Harvard.

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