(note per un Concilio Permanente per l’Umanità)
Quello che viviamo non è un tempo come gli altri. Poniamo all’attenzione del lettore un tema che ci sembra decisivo: la turbo-modernità, caratterizzata da una innovazione tecnologica spinta in maniera del tutto radicale, si accompagna a una questione antropologica che ci pone domande profonde sull’uomo, sulla convivenza umana, sul pianeta.
L’innovazione tecnologica, come ogni fenomeno umano, non è neutra: al contrario, essa è trasformante. Praticamente ogni campo del nostro vivere è problematizzato dalla nuova ondata tecnologica, fenomeno totalizzante. Nulla è estraneo all’impatto delle tecnologie: dai miglioramenti nel campo della medicina fino alle relazioni internazionali. Ciò che è umano viene scosso dal talento altrettanto umano di creare innovazione continua: siamo nel pieno della turbo-modernità.
Noi umani cerchiamo continuamente di superare i nostri limiti ma è come se vi fosse pericolosa separazione tra ciò che siamo in grado di creare tecnologicamente e il destino della nostra condizione: è come se il noi-tecnologico vivesse in una dimensione altra rispetto al noi-umano, dimensione spirituale non digitalizzabile. E’ come se fossiamo così occupati a creare e a utilizzare nuove tecnologie da accantonare o dimenticare la questione antropologica che avanza. E’ come se la voglia di superarci, di essere sempre nuovi, efficienti e competitivi potesse nascondere la violenza dilagante, prima di tutto nelle parole.
Il rapporto tra turbo-modernità e questione antropologica va preso a cuore, posto in cima alle nostre preoccupazioni. Il nostro lavoro culturale e strategico potrebbe riassumersi come appello realistico dell’uomo per l’uomo: chi diventiamo nel futuro già presente ?
Il divenire dell’umano, nelle contraddizioni di ciò che siamo, si sviluppa in un presente che è continuo punto di svolta tra ciò che già conosciamo di noi e ciò di cui non abbiamo ancora esperienza. Il primo punto di una governance umana della rivoluzione tecnologica dovrebbe concentrarsi sulla sua finalizzazione rispetto al nostro tempo di vita: ciò che può renderci attori di una condizione qualitativamente sostenibile o attori di una condizione tragica. Se il presente è storico possiamo liberarci in ogni altro e nella realtà; se il presente è imminente il rischio è che ci radicalizziamo in esso, alimentando discorsi di separazione e di odio, parole di guerra.
La tecnologia non è neutra perché è servizio alla questione antropologica. Se viviamo fuori dalla nostra personale responsabilità per il destino planetario, è chiaro che la tecnologia diventa strumento determinante per renderci monadi incapaci di dialogo, esseri limitati a un confronto solo dialettico nell’ambito dei reciproci rapporti di forza. In tal modo la radicalizzazione progressivamente peggiora, aumenta il sospetto, vincono le chiusure culturali e fisiche. Rimettere in campo la responsabilità, attraverso un realismo adeguato al tempo che viviamo, significa considerare la centralità della questione umano-planetaria: creare dialogo, anche attraverso le tecnologie, può realizzare la nostra umanità che, pur se imperfetta, ritrova spazi di liberazione uscendo dalla trappola dei possibili auto-inganni.
Se continueremo a riflettere insieme scopriremo che abbiamo il diritto e il dovere di cambiare strada. Se nulla è scontato, nostra convinzione è che continuare come sta accadendo possa portarci lungo sentieri molto pericolosi. Molti indizi stanno già popolando le cronache del mondo.
(English version)
(notes for a Permanent Council for Humanity)
The times we live in are unlike any other. We would like to bring to the reader’s attention an issue that we believe to be crucial: turbo-modernity, characterised by radical technological innovation, is accompanied by an anthropological question that raises profound questions about humanity, human coexistence and the planet.
Technological innovation, like any human phenomenon, is not neutral: on the contrary, it is transformative. Virtually every area of our lives is affected by the new wave of technology, a phenomenon that is all-encompassing. Nothing is immune to the impact of technology, from improvements in medicine to international relations. What is human is shaken by the equally human talent for continuous innovation: we are in the midst of turbo-modernity.
We humans are constantly trying to overcome our limits, but it is as if there were a dangerous separation between what we are capable of creating technologically and the destiny of our condition: it is as if the technological “us” lived in a different dimension from the human “us”, a spiritual dimension that cannot be digitised. It is as if we are so busy creating and using new technologies that we are setting aside or forgetting the anthropological question that is advancing. It is as if the desire to surpass ourselves, to always be new, efficient and competitive, could hide the rampant violence, first and foremost in words.
The relationship between turbo-modernity and the anthropological question must be taken to heart and placed at the top of our concerns. Our cultural and strategic work could be summed up as a realistic appeal from man to man: who will we become in the future that is already present?
The becoming of the human being, in the contradictions of what we are, develops in a present that is a continuous turning point between what we already know about ourselves and what we have not yet experienced. The first point of human governance of the technological revolution should focus on its finalisation in relation to our lifetime: what can make us actors in a qualitatively sustainable condition or actors in a tragic condition. If the present is historical, we can free ourselves in every other and in reality; if the present is imminent, the risk is that we become radicalised in it, fuelling discourses of separation and hatred, words of war.
Technology is not neutral because it serves the anthropological question. If we live outside our personal responsibility for the planetary destiny, it is clear that technology becomes a decisive tool for turning us into monads incapable of dialogue, beings limited to a purely dialectical confrontation within the sphere of mutual power relations. In this way, radicalisation progressively worsens, suspicion increases, and cultural and physical closures prevail. Putting responsibility back on the table, through a realism appropriate to the times we live in, means considering the centrality of the human-planetary question: creating dialogue, including through technology, can realise our humanity which, although imperfect, can find spaces for liberation by escaping the trap of possible self-deception.
If we continue to reflect together, we will discover that we have the right and the duty to change course. While nothing can be taken for granted, we are convinced that continuing as we are could lead us down very dangerous paths. Many signs are already appearing in the world’s reality.